Ciro Imperante, Giuseppe La Rocca e Luigi Schiavo e il massacro di Ponticelli: cos’è successo e perché sono stati condannati

Ciro Imperante, Giuseppe La Rocca e Luigi Schiavo e il massacro di Ponticelli: cos'è successo e perché sono stati condannati

Ciro Imperante, Giuseppe La Rocca e Luigi Schiavo professano la loro innocenza. Ecco perché sono stati condannati per il massacro di Ponticelli e qual è la possibilità di errore.

A distanza di ben 40 anni dal massacro di Ponticelli la vicenda giudiziaria continua a destare dubbi e sospetti, mentre Ciro Imperante, Giuseppe La Rocca e Luigi Schiavo – condannati per il duplice delitto – continuano a professare la loro innocenza. Anche la Commissione Antimafia ritiene che ci siano gli elementi per chiedere una revisione del processo, dopo le tre richieste negate agli accusati.

Il massacro di Ponticelli, cos’è e successo e come si sono svolte le indagini

Nella notte tra il 2 e il 3 luglio del 1983 si è consumato a Napoli un delitto efferato, proprio nel quartiere Ponticelli che ha dato il nome al fatto di cronaca. Le vittime, Barbara Sellini e Nunzia Munizzi – rispettivamente di 7 e 10 anni – sono state abusate sessualmente e poi uccise in modo brutale, i loro corpi dati in pasto alle fiamme.

L’indagine ha portato all’accusa di Ciro Imperante, Giuseppe La Rocca e Luigi Schiavo, che sono poi stati condannati in via definitiva per l’omicidio nel 1987. All’epoca dei fatti gli accusati avevano meno di 20 anni e nessun precedente problema con la giustizia. La condanna all’ergastolo è terminata nel 2010 dopo 27 anni di detenzione, quando i presunti colpevoli ormai sessantenni sono stati scarcerati per premi legati alla buona condotta.

Nel corso della detenzione, gli imputati non hanno mai smesso di dichiararsi innocenti e hanno diverse volte chiesto la revisione del processo, che è stata loro negata. Ad oggi, l’intervento della Commissione Antimafia desidera portare alla luce eventuali carenze nell’investigazione e indagare in profondità le dichiarazioni degli imputati. Diversi aspetti della vicenda, infatti, non sembrano essere mai stati chiariti completamente.

Perché Ciro Imperante, Giuseppe La Rocca e Luigi Schiavo sono stati condannati

L’onorevole Stefania Ascari della Commissione Antimafia, dopo una conoscenza approfondita e l’ascolto dei presunti colpevoli, ha dichiarato che ritiene probabile la presenza di un grave errore giudiziario. Un sospetto molto simile a quello avanzato dagli avvocati della difesa, che nel corso degli anni hanno condotto diverse controinchieste, nel tentativo di scagionare i propri clienti.

L’ipotesi avanzata dalla Commissione Antimafia prende in considerazione la carenza di elementi investigativi e il ruolo della Camorra nella vicenda. Le prove che hanno portato all’arresto e in seguito alla condanna dei tre operai sono, infatti, piuttosto indiziarie e si basano principalmente sulle testimonianze. Una in particolare, quella di Carmine Mastrillo, avrebbe condotto gli inquirenti all’arresto.

Il ruolo dell’opinione pubblica e dei testimoni

Le testimonianze riguardo a questa vicenda sono davvero molte, i cittadini napoletani non hanno esitato a raccontare la propria verità per contribuire alle indagini su un crimine tanto brutale. Diversi testimoni, peraltro, sono ancora disponibili a parlarne e hanno partecipato benevolmente all’intervista condotta da Le Iene. Ciò che emerge dai racconti è che le varie testimonianze hanno avuto un peso diverso. Qualcuno è stato perfino arrestato per falsa testimonianza, o comunque intimato a non fornire più le presunte false dichiarazioni.

I testimoni giudicati non credibili erano quelli in grado di fornire un alibi agli imputati, i quali temono un complotto e che la pressione esercitata dall’opinione pubblica abbia compromesso le indagini. Non ci è dato sapere, tuttavia, se ci fossero presenti elementi oggettivi a screditare tali testimonianze.

La testimonianza giudicata verosimile, tanto da dimostrarsi decisiva, è invece quella resa da Carmine Mastrillo, un ragazzo disabile che ha condotto i Carabinieri presso tutte le persone che conosceva e che potevano avere avuto un ruolo nella vicenda. Dopo 2 mesi di indagini e oltre 10 verbali, Mastrillo ha raccontato di essere stato raggiunto dagli accusati intorno alle 20.30 della sera dell’omicidio. Secondo la versione del testimone, i tre gli avrebbero raccontato il crimine commesso, intimandogli di mantenere il segreto.

Cosa c’entra la Camorra con i mostri di Ponticelli

Il secondo elemento che non convince la Commissione Antimafia è il ruolo della Camorra nella vicenda. La giornalista Luciana Esposito, autrice di un libro sulla camorra di Ponticelli, condivide questi dubbi e non è convinta della conclusione delle indagini. In particolare, negli anni del delitto la cultura camorrista del boss Raffaele Cutolo aveva un codice d’onore ben preciso, che imponeva la pena di morte per infanticidi e pedofili.

In proposito si ricorda l’omicidio di Raffaella Esposito e l’uccisione dell’indiziato, che la Camorra ha rivendicato con una telefonata al giornale Il Mattino. Lo stesso Raffaele Cutolo, anni dopo, ne ha parlato nelle aule di tribunale, dicendosi orgoglioso di aver fatto il giustiziere. Questo fattore è in grado di sollevare diversi dubbi: com’è possibile che nessun mafioso abbia mai fatto del male ai condannati? Considerando che in quel periodo le carceri campane ospitavano moltissimi affiliati proprio di Cutolo, è naturale chiedere delle spiegazioni.

Ciro, Giuseppe e Luigi hanno parlato proprio di questo, spiegando di essere stati avvicinati da diversi boss mafiosi, che si sarebbero detti convinti della loro innocenza e li avrebbero pertanto rassicurati sull’assenza di ripercussioni. Oltretutto pare che i camorristi che hanno parlato con loro appartenessero a clan diversi e che fossero piuttosto interessati a trovare la verità. Alcuni collaboratori di giustizia, tra cui Ciro Starace, hanno dichiarato di essere disposti a testimoniare a riguardo. La richiesta degli accusati è stata però rigettata, in via di una presunta non credibilità dei collaboratori per quel contesto.

La possibile spiegazione viene fornita dal professore Alfonso Furgiuele, l’avvocato che ha rappresentato nel processo le famiglie delle vittime. Secondo le dichiarazioni del penalista, riportate dall’Ansa, è molto improbabile che un errore giudiziario possa essersi ripetuto per ben 6 volte (3 gradi di giudizio e 3 revisioni). Al contrario, sarebbe semplice spiegare l’assenza di ripercussioni da parte della mafia sugli imputati proprio perché l’ordinamento penitenziario era a conoscenza del rischio per determinati detenuti, ai quali era garantita una protezione mirata.

Questa tesi, comunque, non trova supporto nel racconto di un parente di Nunzia, che ha riportato a Le Iene il racconto appreso dallo zio della bambina, all’epoca detenuto nello stesso carcere di Ciro, Giuseppe e Luigi. Ricordando che di norma qualsiasi testimonianza ha un margine d’errore e che in questo caso non si tratta nemmeno di un’esperienza diretta, non si può comunque ignorare la dichiarazione. Secondo quest’ultima non sarebbe vero che ai tre fosse garantita protezione, ma anzi gli agenti penitenziari avrebbero lasciato le loro celle aperte per consentire agli altri detenuti di aggredirli. Sempre secondo questo racconto, pare che fossero invece proprio i detenuti a rifiutarsi di punire dei presunti innocenti.

La revisione del processo: ergastolo da innocenti?

Ciro Imperante, Giuseppe La Rocca e Luigi Schiavo hanno nuovamente richiesto la revisione del processo, con lo scopo dichiarato di essere scagionati dall’accusa infamante e arrivare alla punizione del vero colpevole. A tale scopo, i tre hanno preventivamente rinunciato a qualsiasi richiesta di risarcimento, per dimostrare che il loro unico interesse è la verità.

Voglio la verità, per le nostre famiglie e per i genitori delle bambine morte”, così Giuseppe ha sintetizzato il loro obbiettivo nella discussione alla Camera. La Commissione Antimafia, comunque, ha posto l’accento anche sui presunti abusi delle forze dell’ordine e sul ruolo depistante dei pentiti, “abituati a vendersi al miglior offerente”, come riportato dalla relazione.

Il ruolo dei collaboratori di giustizia in questa vicenda è piuttosto fumoso, basti pensare che la caserma Pastrengo – dove sono avvenuti gli arresti – era stata soprannominata come l’hotel dei pentiti. Secondo il racconto dei tre imputati, uno di questi collaboratori di giustizia, all’inizio scambiato per un agente in borghese, li avrebbe aggrediti fisicamente per portarli a una confessione; avrebbe anche influenzato la testimonianza di Mastrillo. Si tratta del collaboratore Mario Incarnato, che secondo il testimone chiave, non avrebbe avuto alcuna influenza sulle sue dichiarazioni.

In effetti, in quegli anni i collaboratori di giustizia hanno spesso fornito dichiarazioni poi rivelatisi false, che tuttavia hanno contribuito a depistare l’andamento dele indagini. Ad esempio, il caso di Enzo Tortora, accusato con la testimonianza di 19 pentiti. Testimonianze che si sono poi dimostrate false.

I nodi da sciogliere rimangono quindi tanti, dalle presunte violenze dei carabinieri nei confronti degli accusati, agli altri sospettati. Tra questi, Luigi Anzovino, conforme all’identikit fornito dalla bambina amica delle vittime e anche compatibile con il profilo psicologico dell’assassino, secondo la criminologa Luisa D’Aniello. Si tratta comunque di ipotesi precarie, perché per il momento non sono noti elementi investigativi di supporto. Non resta che attendere i prossimi sviluppi, investigativi e giornalistici, con la speranza che la giustizia possa fare il suo corso ogni oltre ragionevole dubbio.

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