Polizia penitenziaria: le difficoltà degli agenti nelle strutture carcerarie

Polizia penitenziaria: le difficoltà degli agenti nelle strutture carcerarie

La vita nelle strutture carcerarie italiane è sempre più complicata. A risentirne sono anche gli agenti di polizia penitenziaria spesso costretti a lavorare in condizioni di estrema precarietà e pericolosità.

Il lavoro o meglio la vita dell’agente penitenziario all’interno di un carcere risulta sempre più difficile. La situazione in cui un esso viene a trovarsi quotidianamente è di perenne emergenza e piena di un forte impatto emotivo.
Un lavoro svolto all’insegna di strutture fatiscenti e caratterizzato da enormi difficoltà nella gestione di molte situazioni a causa della carenza di personale.

Non soltanto i detenuti devono affrontare il disagio delle carceri. Certamente loro, chi ha “sbagliato”, si scontrano con le maggiori difficoltà ma anche chi gli è accanto giorno e notte e deve controllare le sbarre che li divide dal compagno o le mura dal mondo reale, vive una condizione di grande malessere.

La carenza di personale

Il più grande problema in cui un agente penitenziario si imbatte durante il servizio è la mancanza di personale, l’assenza di colleghi che possono contribuire a rendere il suo lavoro più efficiente e sicuro possibile. Questa carenza è dovuta principalmente al sovraffollamento delle carceri, fenomeno che sta caratterizzando la maggior parte delle strutture penitenziarie del nostro paese.

Si pensi che a volte il tasso di sovraffollamento può raggiungere anche il 240%. Questo significa che in un carcere che può contenere 170 detenuti, in realtà ce ne sono circa 400. Ciò si traduce ovviamente in un basso rapporto tra controllore e controllato a scapito anche della qualità del lavoro del primo. Capita per esempio che durante ”l’ora d’aria” si arrivi addirittura ad oltre 50 detenuti controllati da un solo agente.

In una situazione del genere, garantire la sicurezza soprattutto se non è previsto l’incremento di guardie carcerarie, risulta essere un compito difficile e talvolta rischioso. Spesso e volentieri gli agenti sono infatti costretti a svolgere lavori che non dovrebbero fare o a lasciare scoperte alcune posizioni impossibili da ricoprire altrimenti.

Quanto lavora un agente penitenziario

Anche l’orario di lavoro è eccessivo. Nonostante il contratto preveda le 9 ore giornaliere, gli agenti lavorano su turni di 12 ore e quando si ricorre agli straordinari questi raggiungono anche le 15-16 ore. Gli agenti entrano alle 7 del mattino ed escono la sera alle 24.

Un orario eccessivo che sommato a tutte le difficoltà esistenti spesso porta a quel fenomeno di massimo stress lavorativo chiamato burnout che può manifestarsi a sua volta con il gesto più estremo che un essere umano possa fare: togliersi la vita. Purtroppo capita e non sono pochi gli agenti penitenziari che negli ultimi tempi si sono spinti fino a tanto.

A tal proposito la Funzione Pubblica CGIL ribadisce l’importanza di mettere a disposizione dei poliziotti, degli specialisti in grado di ascoltarli ed aiutarli con l’obiettivo di ridurre lo stress lavorativo ed evitare il possibile burnout.

Strutture fatiscenti

Le difficoltà riguardano anche le strutture carcerarie. Edifici malsani, pieni di infiltrazioni d’acqua e di muffa. E questo non vale soltanto per le celle ma anche per le altre aree, perfino quelle riservate esclusivamente agli agenti.

Sono tanti gli istituti carcerari che avrebbero bisogno di diversi interventi anche architettonici ma non ci sono i fondi. Annualmente per la ristrutturazione vengono stanziati 4 milioni di euro all’anno quando in realtà ne servirebbero 40.

E a risentirne sono anche le persone esterne al carcere che arrivano in visita. Può succedere per esempio che bisogna far aspettare tanto tempo i figli dei detenuti, anche bambini molto piccoli, perché non si trova uno spazio disponibile per l’incontro con i familiari.

L’agente diventa psicologo

L’agente penitenziario però non è soltanto un poliziotto. Instaura con il detenuto, fin dal primo momento che questo mette piede nel carcere, un rapporto di giorno in giorno sempre più profondo, più intimo.

Il vivere i carcerati nel loro quotidiano fa sì che siano proprio gli agenti di polizia a conoscerli meglio rispetto a quanto possano riuscire alcune figure istituzionali che saltuariamente entrano in struttura e svolgono la funzione di “aiuto” del detenuto stesso.

Diventano quindi dei consulenti, degli amici, degli psicologi; i detenuti vanno da loro anche semplicemente per sfogarsi o chiedere aiuto. Per gli agenti si tratta di un insieme di emozioni e sentimenti in cui spesso è difficile conciliare la totale intransigenza nei confronti del rispetto delle regole. Si diventa più flessibili ove possibile ma sempre a rischio della propria incolumità.

La verità è che gli agenti sono abbandonati a loro stessi e la strada che si sta percorrendo non sembra essere quella risolutiva. Il carcere sta diventando sempre più un luogo da isolare perché nel carcere c’è il male. Un pregiudizio difficile da scardinare e non soltanto rivolto ai detenuti ma anche agli agenti stessi.

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